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Le reti e i lupi

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Forse solo ora stiamo cominciando a percepire quali potrebbero essere gli effetti creati dal terrorismo jihadista sulla nostra quotidianità perché le modalità attraverso le quali il terrorismo si sta manifestando, non possono che essere considerate come una guerra condotta con altri mezzi. Una guerra, certamente, non più combattuta su un campo di battaglia, ma, tuttavia, con effetti altrettanto devastanti perché coincidente con il mondo e con le attività che in questo si svolgono quotidianamente. Una guerra, inoltre, combattuta con quei mezzi ipertecnologici che la globalizzazione mette a disposizione a cui si sommano risorse simboliche arcaiche come il richiamo al califfato e una versione integralista e messianica della religione.

La stretta relazione tra comunicazione di massa e terrorismo non è certamente una novità. Walter Laqueur ne scriveva, ad esempio, già negli anni ’70: <<Il successo di un operazione terroristica dipende quasi interamente dall’ammontare della pubblicità che essa riceve, [indipendentemente dal fatto che si tratti di buona o di cattiva pubblicità] la cattiva pubblicità è sempre meglio della non pubblicità per una organizzazione clandestina che necessita della cooperazione dei mass media per attirare l’attenzione verso la sua esistenza>>. Certamente anche per al-Qaeda e l’ISIS, la comunicazione riveste un ruolo strategico, d’altronde Marshall McLuhan spiegava bene come:: <<Il terrorismo è un modo di comunicare. Senza comunicazione non vi sarebbe il terrorismo>>. La novità di matrice jihadista è data, invece, dal fatto che realtà come quelle citate rappresentano le prime organizzazioni in grado di dematerializzare, grazie al cyberspazio, sia parte delle proprie strategie sia parte delle proprie pratiche operative. Come afferma Grabiel Weimann in Terror on the Internet The New Arena, the New Challenges, il cyberspazio è il luogo ideale di incontro per tutti i sostenitori di una causa terroristica. Dai loro nascondigli segreti, con i loro laptop e i loro computer connessi alla rete, i sostenitori della Jihād possono incontrarsi, scambiarsi informazioni, raccoglier fondi, reclutare e indottrinare per i loro scopi nuovi sostenitori. A questo, come nota Bruce Hoffman in Inside Terrorism, si deve aggiungere anche la potenza asimmetrica della comunicazione in rete. Grazie alla sua struttura decentralizzata e all’offerta di piattaforme multimediali sulle quali scrittura, grafica, audio e sequenze di immagini possono essere associate in modo elementare, il terrorismo non dipende più dai media convenzionali allo stesso modo in cui dipendeva da essi in passato. Oggi gruppi estremisti di matrice jihadista possono dare vita a vere e proprie comunità virtuali all’interno delle quali viene veicolato il materiale di propaganda grazie a siti, forum, blog o grazie a prodotti multimediali come cartoni animanti e video-games .

Un altro tema particolarmente attuale è il passaggio da una strategia basata su di un’organizzazione terroristica che finanza e pianifica attacchi di notevole potenza su grandi obiettivi strategici o simbolici (al-Qaeda)ad una strategia fondata su di uno stillicidio di piccoli/grandi atti di violenza all’interno di contesti che potremmo definire di vita quotidiana(ISIS). Da Parigi fino a Londra, questi atti sono stati realizzati, aderendo alla propaganda jihadista, da persone auto-radicalizzate, senza legami diretti con l’organizzazione principale, di solito nate o cresciute nei luoghi colpiti. Basta essere in possesso di un’arma da fuoco, di un coltello o di un mezzo di trasporto per attaccare persone indifese e provocare un effetto mediatico di diffusione del terrore. Ne consegue una situazione destabilizzata e di continuo rischio, che diventa così parte della condizione della nostra esistenza. Non a caso da una ricerca del CENSIS Le paure degli italiani al tempo della Jihad globale, effettuata, dopo gli attentati di Parigi, su di un campione di mille persone, è emerso come il 65% degli intervistati siano talmente terrorizzati da arrivare a stravolgere le proprie abitudini: il 27,5% non prende più la metropolitana, il treno o l’aereo; il 73% evita di fare viaggi all’estero, più di tutti rinunciano i giovani tra i 18 e i 34 anni (il 77%). Il 44% ha un’opinione negativa della religione musulmana. 

Da questo punto di vista, non c’è dubbio, infatti, che l’obiettivo del movimento jihadista sia scardinare i normali schemi che regolano la società aperta, plasmandone un nuovo status quo. Alterare il fragile equilibrio tra libertà e sicurezza, dissolvendo i legami e le convenzioni che tengono uniti i cittadini a dispetto delle loro differenze e delle loro controversie, disgregando rapporti creati tra persone appartenenti a gruppi diversi e le aperture all’uguaglianza, alla dignità umana, al riconoscimento della libertà di espressione, tutti traguardi consolidati con grande fatica, e non sempre con pieno successo. A tutto ciò si sostituirebbe, invece, il cortocircuito della democrazia: il rischio genera richieste di sicurezza e quest’ultima richiede un abbassamento del tasso di democrazia e se poi si appartiene a uno dei gruppi etnici sospetti si sperimenterà sulla propria pelle in maniera ancora più pesante e umiliante l’offesa. Una condizione questa che può consumare del tutto l’identità e la sostanza stessa della democrazia.

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